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General: giornata del ricordo
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De: Claretta (Mensaje original) |
Enviado: 11/02/2011 03:04 |
1948, i platani del lungofiume sono ancora spogli, c'è una leggera nebbia che impregna di umidità le panchine e la balaustra
Alberto ha quattordici anni, è un ragazzo silenzioso e schivo, di solito rimane ad ascoltare noi ochette giulive che ci raduniamo sempre sulla stessa panchina in fondo all'Allea
non fa mai gruppo con gli altri ragazzi che vogliono attirare la nostra attenzione, se ne sta in disparte appoggiato alla balaustra, e tace
ma stasera le altre se ne sono già andate, abitano in paese e la cena è anticipata perchè dopo andranno al cinema, con il loro genitori, danno Totò al Giro d'Italia e tutte vogliono vederlo
io invece per tornare a casa devo percorrere tutto il lungolago e poi attraversare il ponte di chiatte che gli americani hanno costruito in sostituzione del ponte di ferro, abbattuto dai bombardamenti
quel ponte è già sul fiume, di qui è Lombardia, di là è Piemonte e c'è un piccolo molo con una stele a ricordo che la barca di Garibaldi attraccò lì nel 1848
lungo l'Allea ci sono i lampioni, sul ponte ormai buio fitto
mi incammino e sento i passi di Alberto sulla ghiaia, dietro a me, rallento, lui si affianca e mi chiede " vuoi che ti accompagni ?"
volta che sento la sua voce
è na voce gentile, educata, con un accento che non conosco ancora
gli dico "sì, grazie, ma tu da dove vieni?"
non risponde subito, sembra che la mia domanda lo abbia messo in difficoltà
poi si decide "vengo da Fiume, sono un profugo istriano"
in un attimo mi passano per la testa le immagini dei lunghi treni che percorrevano l'Italia trasportando nei campi profughi al sud i profughi istriani e dalmati che avevano scelto di non rimanere nella Jugoslavia titina
so cosa dice mio padre di quella gente "sono fascisti che scappano" e so che lungo il percorso quei treni venivano accompagnati da insulti e sbeffeggiamenti
Alberto mi fa pena, gli chiedo : "come hai fatto a scappare ?"
e lui racconta : "abbiamo parenti a Trieste, volevamo fermarci da loro, ma sono scomparsi durante i giorni della occupazione titina, così ci siamo rivolti al comando americano, mio padre conosce bene l'inglese e così lo hanno utilizzato come interprete, dandoci un alloggio, ma mia madre voleva venire via da Trieste, voleva allontanarsi da tanti brutti ricordi, e siccome ha una sorella sposata con un italiano che abita qui ha chiesto a lei di ospitarci, per questo non siamo stati caricati sui treni dei profughi"
parla mentre camminiamo, abbiamo ormai attraversato il ponte, di là sulla riva c'è una veccia panchina di legno, ci sediamo e rimaniamo in silenzio guardando il fiume e le luci sull'altra riva
poi Alberto comincia a cantare a voce bassa una dolcissima e triste canzone americna
quando smette mi dice che il titolo della canzone è Stormy Weather e che l'ha imparata dai soladati americani
io taccio, ma è tardi, rischio di buscarle da mia madre
così ci alziamo dalla panchina e ci salutiamo, lui mi dà un bacetto sulla guancia e mi dice "ricordati di me"
mi disse che non ci saremmo più incontrati perchè i suoi avevano deciso di mandarlo in collegio ad Arona per fargli frequentare il liceo
non l'ho più rivisto, infatti, ma nel giorno del ricordo penso a lui e mi torna alla mente la canzone che mi aveva cantato
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De: Tebro |
Enviado: 11/02/2011 10:41 |
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Ricordo al mio paese, in Toscana, una famiglia di zaratini. Persone molto schive, quasi selvatiche: il padre andava in giro con un vecchio camion in cerca di improbabili traslochi o di altri piccoli trasporti da fare, i 2 figli stavano tutto il giorno per conto loro, praticamente abbandonati a se stessi e considerati dai ragazzi del paese poco meno che dei selvaggi; la madre infermiera, in giro dalla mattina alla sera per iniezioni o altro, io la vedevo spesso perchè frequentava la casa di mia nonna materna per assisterla nelle ultime settimane della sua breve vita. Non credo che facessero in tempo a diventare amiche. Ricordo bene questa signora zaratina, alta e magra (curiosamente somigliava un po' proprio a mia nonna), per la sua abitudine di parlare alle persone senza guardarle negli occhi: cosa per me sconvenientissima - perchè così, mi avevano insegnato, si comportano le persone false.
In paese gli zaratini vivevano isolati, e non solo in senso fisico, nella loro casetta dalle parti del cimitero: ma anche se non si può dire che avessero amici, a quanto ricordo non erano mal visti nè tanto meno considerati dei fascisti in fuga dalla "giustizia" di Tito: però curiosamente venivano chiamati "gli slavi", evidentemente i buoni paesani non riuscivano a considerarli italiani tali e quali a loro.
Un bel giorno (sarà stato nel 1960 o nel 1961) "gli slavi" sparirono senza lasciar traccia: pare - a quanto dicevano - che se li sia inghiottiti l'Australia, dove, spero, avranno trovato quel poco di pace e di benessere di cui la Toscana si era rivelata avara. |
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Non era questione di essere fascisti o meno; la questione era essere Italiani, e/o Italiani non schieratisi in tempo con i nuovi arrivati, i partigiani di Tito. Questa non è retorica piagnona se si pensa che lo stesso Milovan Džilas, ex numero due del regime titino insieme al leccaculo Edvard Kardelj, ammise pubblicamente che lui e Kardelj erano stati inviati in Istria da Tito proprio per fare ‘pulizia etnica’.
I giudizi e i sentimenti sull’esodo sono vari: c’è la solidarietà con gente costretta ad abbandonare luoghi che abitava da sempre lasciando là non soltanto le loro case ma anche quasi i materassi, e c’è da una parte la rassegnazione di costoro e la voglia di dimenticare, ma da un’altra parte c’è, per esempio, il ‘Libero Comune di Fiume in esilio’ che organizza cene e gite, nel sottofondo di una rabbia mai sopita verso Tito e verso gli Slavi in generale. Volendo complicare ulteriormente, una parte dei profughi rimpiange Mussolini perché questi aveva fatto valere i loro diritti (anche troppo!), un’altra rimpiange il Vecchio Ordine (Francesco Giuseppe). Qualcuno (ma finora ne ho sentiti pochi) invece dice che se Mussolini non fosse entrato in guerra nessuno se ne sarebbe dovuto andare: insomma, le interpretazioni sono più di una.
Personalmente, da figlio di un profugo fiumano il cui padre, mio nonno, non aveva mai avuto la tessera del PNF né aveva voluto ‘italianizzare’ il proprio cognome, pur dispiaciuto profondamente per quanto è successo (e per non essere nato in Istria) non riesco ad unirmi alle lamentele quando queste si rivoltano contro Tito, e fin qui forse potrei ancora capire, e verso tutti gli Slavi. Loro non ci avevano chiesto nulla; c’erano alle spalle secoli di convivenza pacifica; la loro parlata era strapiena di termini italiani e la parlata italiana conteneva termini slavi; i matrimoni misti non si contavano, e infatti gli Italiani d’Istria non sono sempre distinguibili da un Croato o da uno Sloveno – o anche da un preistorico abitante dell’Istria, qualche esemplare in giro ce n’è ancora. Poteva esserci una famiglia dal cognome italiano ma di madrelingua croata, come il contrario (è il caso della mia famiglia paterna).
La merda, a spalarla, fa puzza. Dopo un ventennio durante il quale gli Sloveni dovettero andarsene da Trieste (che era la città del mondo che contava più Sloveni), durante il quale slavo corrispondeva a ‘essere inferiore’, analogia non nuova del resto se si pensa che il nostro ‘ciao’ (salto alcuni passaggi) deriva da ‘sclavo [vostro, siòr]’ in alternativa al più noto ‘servo vostro’ veneziano; dopo che Lubiana fu circondata di filo spinato dai prodi occupatori italiani; dopo che, mi spiace parlare così di un corpo glorioso, i nostri Alpini uccidevano le donne slave infilando loro una bomba a mano nella ecc., mi sembra brutto ma umano che poi gli ‘sclavi’, o chiunque ci fosse stato al posto loro, abbiano voluto riprendersi tutto con gli interessi.
Questo è quanto. Poi, si sa, la gente tende a farsi un’idea della storia con i piccoli episodi capitati nel loro piccolo contesto. Una signora una volta mi raccontò che a Trieste occupata un partigiano di Tito le aveva tirato i capelli o che so io. Motivo più che valido per odiare tutti gli Slavi, no? Che tra l’altro occuparono Trieste per tirare i capelli a lei, ormai è noto: non c’era stata nessuna guerra mondiale, non c’era stata la nostra occupazione dei loro territori, niente. E aneddoti del genere si possono ancora udire alle cene delle associazioni dei profughi, qualcuno è ancora vivo. Ma personalmente questi racconti non mi commuovono: pur ripetendo che mi dispiace, e parecchio, per tutto quello che è successo anche alla mia famiglia, campo profughi a Chiavari dove i comunisti locali volevano incendiare l’edificio in quanto, come ricorda Claretta, si pensava che fossero tutti fascisti, mio padre poi a Roma, mia zia e mia nonna a Trieste, mio zio a Padova, mio nonno morto e sepolto a Cividale, insomma, tutti separati appassionatamente, non posso non pensare a quanti, a Lubiana e in Istria, m’hanno raccontato di quelle che avevamo combinato noi, e mi tocca concludere dicendo che ce la siamo cercata. E che l’avversione verso gli Slavi andrebbe indirizzata verso altri obiettivi, in primis una guerra (e chi l’ha mossa) che ci potevamo in qualche modo risparmiare. |
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Sì, o Phaber, devo riconoscere che parecchi dei profughi, se certo non videro di buon occhio il dover abbandonare le proprie terre, altrettanto non videro di buon occhio l'integrazione con i 'regnicoli', come (anche) venivano chiamati gli Italiani. Per loro erano praticamente degli stranieri.
Una volta ero a Bari con mio padre e andammo a far visita ad una famiglia di ex suoi vicini di casa. La signora era nera perché le figlie venivano su, che strano, con un accento barese. Ma questo, volendo, si può ricondurre ai campanilismi presenti in tutta Italia, anche all'interno di una stessa regione - Toscana docet col suo 'Pisa merda'. Se invece non si vuole possiamo dire che davvero i profughi, benché si professassero italiani, in realtà non avessero molti legami con il resto dello Stivale, se non forse con Veneti e Friulani, ma questo si comprende facilmente data la comune sudditanza all'Austria e quindi a ciò che ne consegue: mentalità, cultura eccetera.
L'unico mezzo parente che avevo a Roma era un cugino di mia nonna paterna, lo zio Ermanno. Era finito là come dipendente di un'agenzia della banca per la quale lavorava a Fiume, che ovviamente aveva dovuto fare le valigie. Stramalediceva tutti: i Romani, gli Italiani in generale, quel 'pajazo' di Mussolini e la sua guerra. In compenso non mancava di alzarsi in piedi quando nominava Francesco Giuseppe; ma ne parlavamo già con la Hani. Che tipo. E in fondo mi forniva informazioni alternative nei confronti del risorgimento, quando invece a scuola i testi e gli insegnanti si schieravano con questo senza se e senza ma. |
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