Solo alle medie siamo riusciti a scoprire cos’erano quelle grosse larve che l’aratura portava in superficie, con gioia immensa di galline e tacchini.
Il suo nome dialettale, da noi, richiama un sacco di cose, tutte femminili, compresa una parte anatomica scabrosa.
La ‘pampogna’.
Maggiolino,così si chiama, col suo termine vero, perché, dopo due o tre anni allo stato larvale sotto terra, si trasforma in svolazzante coleottero, pronto a divorar foglie ed ubbidire al richiamo della natura, nell’intento di metter su famiglia, nel mese delle rose.
Era l’unica ‘selvaggina’ che riuscivo a pigliare con facilità, e poi correvo dalla prima donna intenta al rammendo, che, con un filo di refe, legava l’insetto ad una zampetta, ed io lo tenevo per gioco come ora si tiene un palloncino pieno di elio.
La bestiola cercava di volare, ed era questo il mio divertimento.
E finiva quasi sempre all’approssimarsi del primo bipede pennuto che, troppo veloce per me, mi lasciava inviperito col refe ed una zampetta inutile.
‘Pampogne, ce n’erano ancora tante, ma poca era la pazienza e la disponibilità di chi doveva mettere insieme il giocattolo, che nessuno vedeva, ai tempi, come cosa crudele.
Ed anche in questo caso sono anni che non ne vede più uno; è l’evoluzione, dicono: crea qualche danno collaterale. Dicono sempre che se non ci fossimo evoluti staremmo ancora facendo versi sulle cime degli alberi.
Ma tante volte mi chiedo a cosa è servito scendere.