IL MARE
Sebald dalla sua cantina uscì alla luce del giorno. Precedentemente aveva posato la fiocina con la lima e l’olio in una cassetta che teneva su una sedia. Il quadrato di luce che penetrava attraverso la porta cadeva su questo piccolo insieme di Cose – una sedia, una tanichetta, una lima, una fiocina. Tutto il resto era buio. Ma non un buio impenetrabile. Un buio dal quale sbucavano oggetti. Oggetti sbucavano sulle pareti, agli angoli, anche sul pavimento della stanza. Un secchio pieno di zucchero, una sella d’asino, čaklje, ancore, nasse, reti piegate e ammucchiate una sopra l’altra, fiocine con lunghe aste, casse e cassette, scatole di attrezzi e gabbie per gardelini; dietro alla porta stavano appesi a ganci mantelli incerati per la barca, vecchi pantaloni e asciugamani. Attraverso la cantina c’era una corda tesa e appesa a una stampella c’era una muta da subacqueo in neoprene (perché rimanesse fuori portata dei pantagan) Dietro alla testiera del letto c’era un cesto pieno di fucili subacquei che con i manici all’insù, a ventaglio, si diramavano come un mazzo di fiori in un vaso. Addosso a una parete c’era un congelatore, su quella opposta un focolare in muratura con un mantello che andava attraverso il tetto in forma di camino in pietra. Sulle mensole appese della parete in fondo, ancora più al buio, c’erano libri. Accanto era appesa una mappa degli Oceani. E una volta fuori dalla cantina, lasciate mille cose, dato che c’era molto di tutto, così come s’era andato accumulando negli anni, ci fermammo di nuovo dalla nona. La nona sedeva, lievemente curva, in un vestito nero con la gonna lunga, con un ciuffo di capelli bianchi sotto il fazzoletto nero, su una sedia che in quei giorni festeggiava il proprio centesimo compleanno senza neanche saperlo. Ma Sebald sapeva che i capelli venivano dalla criniera di un asino grigio. Lo conosceva, almeno fin quando l’asinello era vivo. Quando compì trent’anni Fiamengo lo affidò a Mićo Finta di Potok perché lo portasse a Gatula, nel recinto degli animali ormai inservibili. E là, dietro il filo spinato, un giorno morì. Giaceva su un masso sotto un cielo clemente e si abbandonò ai nibbi e ai corvi. Ne rimasero solo le ossa. In seguito le ossa furono disperse dai temporali e sciacquate dalla pioggia. Sì, qua e là, frugando sotto i sassi, si poteva trovare ancora qualche costola, qualche stinco, qualche zoccolo, o il teschio ridente con i denti gialli.
Senza dubbio la sua criniera esercita funzione di capigliatura sulla testa della nona, ancora oggi e ancora stanotte, oggi, quando Sebald sta davanti alla soglia e chissà perché guarda di nuovo dentro – e stanotte, quando tornerà dalla terrazza dei Dalton Pešekani e dal concerto sotto le stelle – e guarderà fuori.
Sebald voltò il viso verso il golfo e la schiena alla cantina. In quel momento Piazun non c’era. Non era la volta in cui Piazun era con lui. Era un po’ più tardi, o forse proprio un altro giorno. I giorni saltano come i cavalli degli scacchi. Ogni giorno in ogni momento scompare dietro qualche curva ad angolo acuto. Divora il giorno precedente o è il giorno precedente che lo divora.
Sebald sorrise e si incamminò per il sentiero verso il basso. La sua casa con cantina – sopra la quale non c’erano piani – stava su un’altura sopra il golfo e il villaggio di Konfin. Non molto in alto, ma più in alto della casa dove viveva Fiamengo con Nives. Doveva necessariamente passare davanti alla loro terrazza. La loro terrazza era proprio il ponte di comando del golfo. Da là Fiamengo controllava il mare. Tutto ciò che vi accadeva era disteso davanti a lui come su un palmo aperto e salato. Si era incollato a quella terrazza già anni prima, quando aveva smesso di fare il pescatore, e prima ancora il fornaio, e ancora prima il soldato…
Sedeva sulla terrazza, su una panchina dietro a un lungo tavolo, quando passò Sebald.
‘Come va, Sebald? Sei ancora vivo?’, disse.
Sebald si fermò.
‘Tutto sotto controllo’, rispose, ‘E tu?’
‘Dalla cintura in su tutto a posto’, disse Fiamengo, ‘Dalla cintura in giù non va niente’.
‘Nessuno rimane montone a vita’, disse Sebald, salutò con la mano e continuò la sua strada come se scendesse per la scala di una nave.
Quando passò davanti al recinto con gli agnellini pecore e capre belarono e lo guardarono con occhi blu e diabolici. Un agnellino corse fino da lui alla fine del recinto, sperando che lui gli desse sale da leccare. Ma sale non ne aveva, tranne quello che da molto tempo s’era insinuato come un parassita sotto la sua pelle. Gliene diede un po’: tese la mano attraverso la rete e gli agnellini gli leccarono il palmo.
‘Io vi do il mio sale’, disse loro, ‘Voi mi darete il kulen’.
Il kulen sono gli intestini di pecora o di capra farciti del loro sangue. Questa pietanza gli piaceva come il pesce.
‘Ciao, agnello sacrificale’, disse e si allontanò.
Andò per la spiaggia tra le barche che erano legate a dei blocchi sulla riva e che ruminavano vento. In vetroresina o in legno. Tra queste c’era la sua; una pasara bianca in vetroresina cabinata entrobordo di cinque metri. Passandole davanti la scosse per la prua e disse:
‘Presto; forse domani’.
‘E dove?’, disse la barca.
‘A calamari’, disse Sebald, ‘Poi un giorno andiamo fino all’Ombelico del Mare a prendere qualche pesce grosso’.
La barca cigolò lievemente quando Sebald se ne andò.
Si inerpicò per la salita pelosa lungo la quale correva il sentiero che attraversava la punta. In cima si godeva la visuale di tre lati – su due golfi e sul mare aperto. Spinse la porta di tavole e fil di ferro dietro la quale una volta viveva l’asino e si piazzò accanto alla stalla dell’asino in rovina. Cacciò fuori il pene dai pantaloni e cominciò a orinare con lo sguardo verso l’Ombelico del Mare.
Gli sembrò lontano.
Il momento dopo, vicino.
In effetti era a due ore di barca, col suo Yanmar da sette cavalli.
Sopra di lui stava sospeso un cumulo bianco, come il ciuffo d’ovatta sui bastoncini per le orecchie.
Rimise il pene dentro i pantaloni e sentì rassegnato le tre goccioline che immancabilmente gli correvano nelle mutande.
Sull’altro lato iniziò a scendere e finì sulla spiaggia sabbiosa davanti alla terrazza del ristorante Dalton Pešekani. Camminava proprio accanto al mare, ma doveva deviare continuamente perché il mare lanciava le sue lingue lontano su quella sabbia alluvionale. All’improviso si fermò. Stette ad osservare l’incerto confine tra il mare e la terra.
‘Davvero’, disse, ‘Ma dov’è che finisce il mare?’
‘Dove comincia la terra’, disse Piazun. Piazun compariva sempre, era il suo interlocutore fisso.
‘Non è così semplice’, disse Sebald, ‘Guarda come curva il confine tra i due. Non è affatto strano che abbia confuso il professor Bartleboom’.
‘Chi è il professor Bartleboom?’, domandò Piazun.
‘Oh - un personaggio di un libro’, disse Sebald, del libro Oceano mare’.
‘Ce l’hai questo libro?’, chiese Piazun.
‘Penso di sì’, disse Sebald, ‘Se non l’ho prestato a qualcuno. I libri sono come le donne – ti lasciano, e se mai tornano sono rovinate… però un buon libro te lo riprendi. C’è sempre qualcosa da rileggere. E qualche libro lo leggeresti mille volte. Sono libri che non finiscono mai’.
‘Di cosa parla quel libro?’, insistette curioso Piazun, cui ancora le donne non interessavano, e che non aveva idee sui libri, dato che in casa sua non ce n’erano. Nella casa era pieno di cianfrusaglie di ogni genere, ma nulla di ciò senza il quale vivere sarebbe stato ugualmente possibile. Da Sebald era diverso. Aveva i Libri così come aveva le Fiocine.
Sebald ebbe un moto di commozione pensando al libro nel quale Bartleboom cercava il confine del mare. Era sempre così quando camminava sulla sabbia di quella spiaggia.
‘Parla anche di un pittore che voleva dipingere il mare con il mare’.
‘E com’è possibile?’
‘Così – intingeva il pennello nel mare e con quello disegnava il mare su una tela. Quando iniziava stava nell’acqua fino alle ginocchia, quando terminava di solito era bagnato fino alla cintura. Allora veniva un ragazzino a prenderlo con la barca’.
‘Ma sulla tela cosa c’era?’, domandò Piazun.
‘Che domande: il mare, no?’
E quando si fermò di nuovo e si voltò verso il ristorante, la casa, la terrazza, la tenda, i pali e l’insegna, aggiunse:
‘C’era anche la locanda Almayer. Quasi come questo qua. Anche quello in un angolo sopra il golfo. Anzi, era anche pensione, aveva sette camere. Ci abitava Ann Deverià, una donna strana. Bella. Si nascondeva dal marito e aspettava l’amante. Aspettava la morte. E alla finestra della camera di Bartleboom sedeva sempre un ragazzino con le gambe di fuori. Era una parte della camera’.
‘Dai, però adesso stai scherzando’, disse Piacun.
‘Non molto, a dire il vero. Ma ho anch'io la mia locanda. Be’, diciamo una trattoria, un po’ è uguale, un po’ è diverso’.
‘E dove ce l’hai?’
‘Nei miei sogni. Si chiama trattoria Kokovyija’.
‘Kokovyija?’, ripeté Piacun.
‘Sì, con la y, la i e la j. Insolito, ma così era. Così era scritto sull’insegna che stava sopra la porta, su un muro di mattoni rossi. Dentro c’era lo stesso nome fatto con tubi al neon’.