TEMPORALE 15.5.2010
Come per incanto tutte le luci lungo la stradina si accesero. Anticipatamente rispetto al solito.
Non si trattò di un colpo di cannone, anche se il fragore gli somigliava perfettamente. Era un tuono, ma funzionò come uno sparo, come il colpo della pistola che decide la partenza in una gara. E infatti tutto partì, e tutto partì all’improvviso: l'aria, fino a quel momento placida, ovattata, in un silenzio irreale dove appena si riusciva a percepire, più che sentire, lo stormire delle foglie, quasi immobile come in un’attesa forse trepida perché sembrava volersi accoccolare, nascondersi da ciò che temeva, da ciò che anzi sapeva che sarebbe accaduto; l’aria, scossa da quel fragore dell’ineluttabile, cominciò a mulinare e vere cascate cominciarono a rovesciarsi dagli enormi cumulonembi che si erano visti sopraggiungere nell’avanzare del tramonto, che era poi l’esordio della sera.
I mulinelli presero presto, quasi immediatamente, forma di vento, di vento da una sola direzione, credo il nord, e la pioggia cominciò ad assumere una traiettoria quasi orizzontale che rendeva ancora più difficoltoso trovare un riparo.
Ciò che restava del chiarore serotino fu fatto a pezzi, distrutto, annullato, mentre numerose sirene emettevano i loro suoni acuti: erano antifurto di case, di automobili, forse di motoscooter. Un concerto in netta contraddizione con quanto in quel momento offriva la Natura con i suoi rimbombi a volte vicini, a volte lontani. E questi erano suoni, erano 'i suoni', anche se rumori; le sirene erano rumori anche se suoni.
Il gelo improvviso fu in realtà, o diciamo dapprima, un sollievo per la pelle scottata dal sole del pomeriggio, grazie anche alle grosse gocce che formavano sulla maglietta un motivo che sembrava disegnato a bella posta.
La stradina asfaltata divenne in un attimo un torrente in piena che portava foglie e piccoli rami; galleggiavano su un liquido latteo misto a bollicine: era la sporcizia, la polvere accumulatasi dopo mesi rimasti all’asciutto.
La porta del bungalow era chiusa a chiave.
Ad ogni nuovo lampo, appena si udiva il corrispondente tuono, sembrava che la pioggia aumentasse di intensità. Attorno era ormai impossibile distinguere qualcosa: soltanto lo scroscio continuo e il torrente della strada. E l’incerto alone color arancio di un lampione, ne vedevo soltanto due, che rendeva fili d’argento le fitte gocce che gli piovevano intorno.
Passò un'auto che incedeva a fatica, silenziosa per via degli altri rumori anzi suoni, i suoni della Natura, che prevalevano su tutto il resto. Non la udii giungere e mentre passava l'unico rumore era quello degli pneumatici sul torrente della stradina; scomparve in pochi attimi, annegata nella pioggia, seppellita; i fanalini posteriori furono in un attimo un vago ricordo, l'idea di un miraggio, di un'allucinazione.
Il vento aumentò di intensità, ma adesso giocava con i punti cardinali: proveniva ora da una, ora da un'altra direzione. E nacque angoscia quando tra l'invisibile si distinse, seppure a malapena, l'enorme ramo di un ippocastano che veniva giù con tale naturalezza da sembrare che fosse stato concepito, che fosse spuntato null'altro che per essere strappato dal suo tronco. Per un attimo dovetti aggrapparmi alla traballante palizzata del portico sotto il quale avevo trovato un aleatorio rifugio che mi consentiva almeno di respirare: con il mutare del vento ero ormai talmente zuppo da chiedermi se non fossi caduto dentro il lago, da chiedermi se adesso il lago non sarebbe salito a lambire per poi sommergere il bungalow che mi offriva riparo; se ormai ci fosse vera differenza tra quel muro d’acqua che scendeva e il venire tutto ciò che avevo intorno veramente, o diciamo ‘semplicemente’, sommerso. Appena a fianco del piccolo portico in pochi istanti un altro torrente si era scavato il letto nel terreno e portava via terra e arbusti riversandoli sulla stradina asfaltata; ma non riusciva neanche a sporcarla, tanta era la massa d'acqua che la percorreva.
Un'altra improvvisa folata di vento mi ricoprì di foglie, verdi, gialle, marrone. Le avevo dappertutto, una dovetti togliermela dal viso per poter vedere quel poco che c'era da vedere, per poter respirare quell'aria piena d'acqua.
Adesso avevo brividi e il naso congestionato. Provai a fare un passo e mi sembrò di camminare dentro una pozzanghera, tanto erano zuppe le mie scarpe. Dovetti subito aggrapparmi di nuovo alla palizzata per un’altra raffica di vento.
Il cielo era illuminato a festa: fuochi artificiali di elettricità statica dai mille colori, saette che lasciavano distinguere per un attimo le nubi che le avevano generate, bagliori lontani chissà quanto, si alternavano senza sosta, lasciando solo per brevi istanti spazio al buio.
Ma io non volevo che cessasse: il temporale era fuori ma dentro di me. E dentro di me dicevo Ancora, ancora!; volevo vedere la Natura scatenata come non mai, lasciare che facesse lei giustizia di tutto quanto, delle mie pene, delle mie rabbie, dei miei amori; delle mie speranze deluse, dei miei rimorsi, dei miei rimpianti. E tutti i lampi, tutti i tuoni, ero io a crearli, a liberarli, a mandarli da me stesso sul mondo mentre il mondo li mandava su di me. E ogni esplosione era sempre poco intensa per me che attendevo quella apocalittica, definitiva. La fine del mondo in una giostra che rotola con le foglie e il vento, con l’acqua che sembra giungere da ogni dove, con i bagliori vicini e lontani, vividi o smorzati, con l’acqua che tutto lava, che tutto disperde nell’oblio.
Finì tutto così com’era cominciato.
Da un momento all’altro.
Il cielo ricostruì la diga crollata, soltanto gli alberi più alti, che scrollavano via l’acqua dal loro fogliame, continuarono a piangere, e sotto di essi era ancora pioggia, non intensa ma pioggia. La stradina continuava a portare in basso acqua, a tratti mista a fango, a ghiaia. Presi a percorrerla e salii sulla strada principale.
Come in un dipinto barocco, sullo sfondo, all’orizzonte ondulato dalle colline, comparve inatteso un chiarore arancio, rosa, rosso. Ma non so. Un vento teso in quota stava già stracciando le nuvole che aprendosi mostravano un blu non ancora nero. Lontano, residui lampi ormai sconfitti. Dall’asfalto della strada si alzava una leggera nebbiolina. Aleggiava a mezzo metro d’altezza e appena più in alto era già di nuovo evaporata, salita, tornata invisibile vapore nel cielo esausto. Ero vivo di una vita rinnovata. Almeno per quella sera.