(Era il posto sicuramente più pulito della cascina: nessuno c’entrava mai. Ognuno aveva la sua siepe, il suo fosso, il suo ponte.)
D’estate, con i campi di mais rigogliosi, c’era solo l’imbarazzo della scelta, e d’inverno negli stessi campi, i gambi del granoturco, legati in grossi fasci, larghi alla base e che si sostenevano in punta a mo’ di cono, offrivano all’interno tutta la privacy necessaria.
Magari c’era, per noi, il problema dell’abbigliamento e soprattutto dei calzoni, fedeli indumenti di varie generazioni che badavano più alla sostanza che all’estetica. E capitava in certi casi di starci un paio di volte; si rimediava con bretelle anch’esse di buona stagionatura ed adattate.
Esisteva la seccatura dei bottoni ai quali il succitato orpello veniva agganciato per sostenere le ‘braghe’, bottoni scelti da un sacchetto che ne conteneva di tutti i tipi, spesso non della misura dell’asola.
Troppo piccoli, cadevano i pantaloni, e troppo grandi non si riusciva a sganciarli.
E l’eterogeneità dell’alimentazione, nonché la scarsa attenzione in fatto di igiene, causava spesso vibrate proteste intestinali, con rifiuto per decenza di tale apparato corporeo di adempiere fino in fondo al compito al quale la natura l’aveva preposto.
Le conseguenze erano veloci corse al più vicino posto di ristoro, sperando di non incappare nel bottone maledetto. E se la cosa succedeva, non si sarebbe interrotta l’operazione fisiologica, e sarebbe pure rimasto pulito pure il sito.
Il sollievo dei visceri era contrastato dal fastidioso senso di caldoumido che dalla cosce proseguiva fino all’estremità degli arti inferiori, e il camminare impacciato lasciava talvolta vistose chiazze sul sentiero verso casa.
Dove qualcuno avrebbe provveduto, non senza moccoli e smorfie di disgusto.