Nessuno quel pomeriggio mi chiamò per il sonnellino: c’era movimento, in casa.
Era nervoso, prese la borsa nera fatta di rombi di pelle cucita, foderata con tela scura di cotone e vi infilò la sveglia, grossa e rumorosa, nonché una bottiglia lucente piena di acqua fresca.
Afferrò il badile e se lo mise un spalla; sul manico agganciò la borsa; prese il falcetto dal manico lungo e se lo infilò nella cintola; senza dire nulla mi diede la mano e si avviò al campo lungo; un paio di giorni prima si era raccolto il fieno e l’erba nuova soffriva nella terra secca.
La volta di superbi platani, querce e pioppi calmava la rabbia del sole sulla stradicciola di sterrato, dando un po’ di sollievo ai piedi scalzi; il campo lungo, lì vicino, era giallastro e gli spuntoni dell’erba tagliata, oramai rinsecchiti, pungevano le piante dei piedi. Filari di ceppi di platani frondosi nascondevano il fosso, i cui bordi erano tagliati regolarmente da piccole bocche chiuse con terriccio e foglie, che davano sul campo.
Entrò nel fosso asciutto le cui rive erano ricoperte da erbe alte e rovi; mi sedetti all’ombra e su un pulito muricciolo di cemento che serviva per bloccare la chiusa di legno che fermava l’acqua per creare l’ invaso che avrebbe riversato la stessa, attraverso le bocche opportunamente aperte, sul campo riarso.
Lasciò il badile, appese la borsa ad un ramo, si sfilò il falcetto e cominciò a pulire le rive; il ticchettio regolare della sveglia e la frescura mi conciliava il sonno, scacciato comunque dall’emozione dell’evento dal quale, data l’età ero sempre stato tenuto alla larga: in famiglia si lamentava già una tragedia.
Recuperò la ‘ciàiga’ di legno e la posizionò fra i due muretti, fissandola con un ramo di platano in modo da non farla cadere e chiuse eventuali fughe con qualche badilata di terra argillosa e fogliame; prese la bottiglia dalla borsa e mi fece bere; bevve anche lui e la rimise dov’era. Guardò la sveglia e si avviò di buon passo, ordinandomi di seguirlo.
A circa duecento metri passava il vaso principale, pieno d’acqua, direzionata da chiuse in ferro che si alzavano e si abbassavano con meccanismo a catena; c’era un uomo a far guardia: l’orario doveva essere rispettato, ma ognuno aveva la miglior sveglia del paese, che spaccava il minuto, e spesso la diatriba al riguardo faceva sì che i badili venissero usati non propriamente per quello per cui erano stati fatti, anche perché un minuto d’acqua significava quantità di raccolto.
L’uomo era Bepi, amico nonché compare di ‘bubà’, e che si informò subito su qualcosa che non riuscivo a capire; ‘bubà’ rispose tra il preoccupato e lo speranzoso.
Senza altra discussione l’acqua fu deviata.
Scrosciava canterina e schiumosa seguendo allegra il corso del fosso, arrivando finalmente alla chiusa di legno che, arrestandone il corso, provocò l’invaso e la fuoriuscita nel campo.
Era apoteosi: mi potevo pure inzuppare nel campo senza che lui, indaffarato in tante altre cose, non mi dicesse nulla.
Aspettavo nelle piccole stoppie dure, e sulla terra calda, il flusso fresco che ristorava i piedi, solleticandoli; mi sentivo uomo, come i miei cugini più grandi.
E venne la nonna del paese. Avevo la netta impressione che non mi sopportasse più di tanto, e di questo era più che ampiamente ricambiata: parlò con mio padre e lui s’illuminò; la sua espressione esplose in entusiasmo.
L’anziana mi riportò a casa per la merenda e non ero entusiasta. Prima dell’uovo sbattuto da mangiare col pane, senza che lei si accorgesse di qualcosa, andai in camera, al piano di sopra: avevo voglia di vedere mamma, che mi avevano detto era stanca e stava riposando.
Era nel letto grande, e vicino a lei c’era una faccina rosa avvolta in fasce di cotone.
1957.