Il sole caldo e l’aria tersa del primo pomeriggio nascondevano le rughe della notte che il mattino evidenziava nelle lievi brume d’opale e di fresca rugiada.
Sottili note di melanconica nostalgia rigavano la veste dell’estate comunque ancora bella.
La brezza caricava d’allegria le foglie degli alberi rinverdite dai primi temporali di fine agosto, e trasportava l’aroma dolce del mais maturo e quello forte della menta selvatica.
Nel campo di granoturco, dagli steli, privati dopo l’impollinazione delle parte superiore, usata come foraggio, pendevano le pannocchie; talvolta le brattee oramai secche lasciavano intravedere i chicchi giallo ocra, allineati longitudinalmente in file regolari.
L’avevo seguito a piedi nudi dalla cascina, al trotto: i suoi passi erano troppo lunghi per la mia età; calzava grossi zoccoli di legno suolati con la latta, per non farli usurare, e talvolta il rumore della camminata ricordava vagamente quello del cavallo.
Si soffermò e guardò, quasi con soddisfazione; s’addentrò tra le lunghe fila, toccò qualche pannocchia e ne staccò una.
La scartocciò e la pulì dai pistilli filamentosi secchi e oramai inutili; la spezzò in due e la annusò. Toccò il centro spugnoso del tutolo e poi sgranò alcuni chicchi; li passò tra il pollice e il palmo della mano qualche volta, se li passò da una mano all’altra ascoltando il suono. Ne masticò uno e poi sputò i pezzetti; rimise i rimanenti e le due metà nelle capienti tasche dei pantaloni di tela blù.
Arrivammo a casa e gettò i chicchi nell’aia, provocando ressa nei pollastri che razzolavano e richiamando dai tetti i colombi; depositò i pezzi di pannocchia sul davanzale.
Dalla stalla usci il fratello, e con lo sguardo alla base della finestra pose la domanda, senza parlare.
Lui rispose con una smorfia quasi d’entusiasmo:“Pasandumà ‘l càtem!”
Sul tavolo della grossa cucina, per merenda, c’erano due grossi fichi maturi ed un pane.