La sua opera era oramai quasi solo un ricordo, e lui giaceva consunto dalla nostalgia e deriso dall’autunno, che tingeva di grigio il giorno.
(Non la volevo: il terrore mi gelava ancora il cuore. L’avevo accettata come chi, tormentato dalla cancrena accetta un anestetico, sapendolo solo un palliativo effimero).
Ma l’estate fu resa meravigliosa dai nostri giochi nell’aia, nei campi, e dalla complicità che cuce l’intesa fra un bambino e un cucciolo.
(No, non l’avrebbero uccisa).
Era accovacciata ai miei piedi godendo dell’ultimo tepore della stufa morente; la minestra era fredda ed il resto non m’interessava: il groppo aveva scacciato la fame. La pioggia sottile e gelida non riusciva a slavare troppi ricordi meravigliosi, troppi attimi intensi vissuti nel loro momento, senza l’ombra del futuro.
Sapevo che volevano farlo, magari raccontandomi una bugia, ma non l’avrebbero uccisa.
L’erba nei campi s’era già assopita, e stanca tingeva di giallo gli steli più alti; l’acqua nel fosso trascinava le foglie oramai inutili che venivano raccolte da griglie formate da pioli di legno: sarebbero servite, una volta asciugate, come letto invernale per il bestiame, e come concime in primavera.
La strada era fangosa e piena di pozzanghere e grosse gocce che cadevano dai rami accentuavano l’opera della pioggia; non avevo ombrello. La foschia portava odore di muschio e funghi.
Dolly mi seguiva, legata con una cordicella, incurante di essere fradicia: le piacevano questi nuovi odori e la serenità della campagna.
Avrei preso un sacco di botte: non potevo bagnare i vestiti che avrei dovuto portare per tutta settimana a scuola, e non avrei dovuto inzaccherare le scarpe di fango.
Ma non l’avrebbero uccisa. Il giorno sbadigliava.
C’erano tante cascine: qualcuno magari l’avrebbe voluta, e sicuramente sarebbe state bene. Però non era solo pioggia quello che solcava il viso. Sarei proseguito fino ad ottenere ciò che mi ero prefissato.
Non mi sembrava mai di essere stato, anzi, non lo ero mai stato, così deciso.
Era meravigliato di vedere un ragazzo di otto anni a quell’ora così distante dal paese, e più meravigliato dall’offerta perentoria. Dolly mi guardava incerta. Era bella: nera focata, col pelo soffice, le orecchie dritte.
Accettò l’offerta. Mi conosceva vagamente, ma conosceva bene mio padre. Intuì il significato del mio sorriso in un volto di occhi tristi. Slegai il guinzaglio e misi lo spago in tasca. L’uomo rispose alla domanda che non sarei comunque riuscito a fare: mi garantì che l’avrebbe trattate bene, e se in caso non l’avesse più voluta me l’avrebbe ridata.
Non ricordo il ritorno.
Era quasi buio, quando lei rientrò in casa, dopo una giornata di lavoro a Milano, e avrebbe dovuto cominciarne un’altra. Aspettavo le botte senza scuse e senza la minima intenzione di scappare.
Notò la minestra cagliata nella scodella e il tegamino con tutto il suo contenuto; forse s’accorse del mio sguardo. La stufa era fredda e la stanza umida.
Mi disse: “Hai fame?”
(Qualcuno asserisce che l’orrore in un bambino sparisce col sonno della notte.
L’orrore s’accuccia in un lungo letargo, per risvegliarsi nel tempo affamato, rabbioso ed imprevedibile).