Nacque da genitori di condizione civile. Sua madre morì nel darlo alla luce. Spinto dal padre militare, nel 1820 si arruolò nell'esercito pontificio. Ottenuto però nel 1825 il congedo, preferì occuparsi come cuoco presso la famiglia baronale degli Orsini. Nel frattempo cominciò a frequentare i teatri, e a prendere parte alle prime recite in compagnie di filodrammatici. Passato a lavorare come uomo di fatica in un negozio di caffè, gli occorse un incidente mentre stava alzando un grosso peso e, slogatasi la spalla destra, rimase gobbo. Questa menomazione si rivelò paradossalmente la sua fortuna perché lo forzò ad impegnarsi a tempo pieno nell'attività teatrale. Nel 1834 agiva in Roma l'attore e capocomico Giovan Battista Trabalza, per far colpo sulla piazza romana, decise di mettere in scena un lavoro in dialetto romanesco, e cercò la collaborazione di Tacconi e del suggeritore. Tacconi e Sansoni ne rielaborarono la materia e scrissero il Duello de Marco Pepe e Meo Patacca, dando vita alla prima commedia teatrale interamente scritta in romanesco e in cui assumeva un peso centrale la figura di Marco Pepe. Posta in scena al Pallacorda, il successo fu enorme e spinse il Trabalza ad accordare centinaia di repliche. Nel biennio 1835-1836 cominciò i primi esperimenti per realizzare una compagnia propria, ma nel 1839, tornato nella compagnia Trabalza, sostituì un celebre caratterista per la parte di Marco Pepe. Tacconi dette gran prova di sé, riuscendo a trascinare il pubblico con la sua mordente comicità. Era questa sua un'attitudine che gli avrebbe attirato le censure dell'autoritario governo pontificio. Celebre la frecciata che lanciò dal palcoscenico del Valletto in una sera del carnevale 1860, per dirla con un verso di Augusto Marini, doppo le botte de Casterfidardo, quando i soldati del papa - tra cui i palatini - furono sonoramente battuti dalle truppe italiane guidate da Vittorio Emanuele II. Finita la serenata licenzia i suonatori promettendo loro una ricompensa. Una sera, al secondo atto, e appunto dopo la tarantella, Marco Pepe, ossia il Tacconi, si rivolse agli amichi che l'aveveno accompagnato co li soni, e variando, d'un lampo, la solita battuta grida loro: «Addio, rigazzi, andatevene ar caffè del Rampino, e aspettateme là defora, che doppo ch'averete presa l'acquavita, vierò io e v'arigalerò er ciammellone». Pijjà l'acquavita in romanesco significava prenderne di santa ragione. Il pubblico proruppe in uno scoppio d'applausi mentre i gendarmi, volati sul palcoscenico, presero Tacconi, lo legarono e lo condussero subito alle Carceri Nuove. Nel '42-'43 fu impresario al Teatro Pace dove, insieme con la sua compagnia, presentò una troupe di acrobati, detti Alcìdi, da lui stesso composta. Nel 1859 calcò le scene del Teatro delle Muse La compagnia in dialetto romanesco e vaudevilles diretta da Filippo Tacconi, che nello stesso anno inaugurò la stagione al Capranica, con il Meo Patacca musicato da Galanti. Nel 1863 tentò la fortuna fuori Roma, ma ad Ancona, dopo tanti successi, fu sonoramente fischiato. Fu un colpo durissimo, dal quale il Tacconi non seppe più riprendersi. Lasciò allora il testimone a Pippo Tamburri e si ritirò dalle scene nel 1868. Morì pochi anni dopo in povertà.