Renato Dulbecco nacque a Catanzaro nel 1914, da madre calabrese e padre ligure. Suo padre era un ingegnere, mentre sua madre apparteneva ad una famiglia di professionisti. Fin da bambino fu educato dai genitori al sacrificio e allo studio. All'età di cinque anni, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si trasferì in Liguria con la sua famiglia, nella casa paterna di una frazione di Imperia, dove trascorse un'infanzia serena. Qui visse anche alcune esperienze, la malattia di sua sorella Emma e la morte dell’amico Peppino, che furono decisive per la scelta della sua carriera futura. Durante gli anni del ginnasio e del liceo, in Italia ci fu l’avvento della dittatura fascista e anche la tranquilla vita cittadina ne fu influenzata. Il padre, che lavorava nel Genio Civile, venne mandato prima a Cuneo, poi a Torino e infine a Imperia, dove il giovane Renato frequentava il liceo. Già da ragazzo diede prova di grande ingegno e perspicacia, iniziò, infatti, a trascorrere il suo tempo libero presso l’Osservatorio Meteorologico e Sismico della sua città dove si dedicava alla costruzione di strumenti all’avanguardia grazie a quanto aveva appreso dalla lettura di alcune riviste scientifiche del tempo. Nel 1930 si iscrisse alla facoltà di medicina a Torino e già dal secondo anno, grazie ai brillanti risultati ottenuti, fu ammesso come interno all’Istituto di Anatomia di Giuseppe Levi, personalità in vista nell’ambito medico e biologico. Gli anni trascorsi all’Istituto furono segnati dal continuo intervento del regime fascista nella vita pubblica e privata, e lo stesso Levi, dichiarato oppositore del sistema vigente, fu sul punto di abbandonare la cattedra di anatomia pur di non prestare giuramento al regime. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936, con una tesi sulle alterazioni del fegato e ricevette in quest’occasione diversi premi, essendo stato riconosciuto come il migliore laureato dell’università con la migliore tesi. Fu chiamato a prestare il servizio militare come ufficiale medico, fino al 1938. Scelta la via della ricerca, non ebbe neanche il tempo di trovare un lavoro che nel 1939 venne richiamato alle armi per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, sempre come ufficiale medico, a Sanremo. Nell’iniziale incertezza della situazione, ebbe la possibilità di coronare il sogno di sposarsi con Giuseppina, figlia di un membro del governo fascista. Nel giugno del 1940, l’Italia entrò in guerra ed egli fu mandato con il suo reggimento a poca distanza dalla frontiera francese, fino al momento dell’armistizio con la Francia. Durante questo periodo profuse il suo impegno nello studio e nella ricerca, volto ad ottenere la libera docenza (Roma-1941), titolo che gli permise di diventare anche capo del servizio sanitario della 5ª Divisione fanteria "Cosseria". In questa veste, qualche mese dopo, dovette partire per la campagna in URSS sul Don. Con il rientro in Italia riprese il suo lavoro all’Istituto di anatomia patologica e iniziò a frequentare alcune organizzazioni antifasciste clandestine, in particolare il Movimento dei Lavoratori Cristiani, appassionandosi alla vita politica; entrò, infatti, a far parte del CLN della città di Torino, iniziò ad interessarsi all’effetto delle radiazioni sulle cellule embrionali di pollo, osservando delle alterazioni nello sviluppo delle cellule germinali. Nell'autunno del 1947 si trasferì negli Stati Uniti, a Bloomington (Indiana), scoprendo un mondo totalmente diverso dalla sua terra natia. Durante questo periodo partecipò anche a riunioni scientifiche entrando in contatto con noti ricercatori tra cui diversi premi Nobel. Il contratto di lavoro offertogli prevedeva una durata di due anni, ma date le dimostrazioni di grande capacità e acutezza dello scienziato, egli ebbe la possibilità di proseguire le sue ricerche, acquisendo definitivamente la cittadinanza americana. La stima da parte del suo “datore di lavoro” fu tale che nell’estate del 1948, lo invitò a lavorare con lui per alcuni mesi presso il Cold Spring Harbor, un prestigioso laboratorio in cui affluivano scienziati da tutte le parti del mondo. Il ritorno a Bloomington, fu inaugurato da una nuova e interessante scoperta: per l’analisi dei fagi, ma dato che l’esposizione ai raggi UV avveniva fuori da queste cellule, era necessariamente all’interno che qualche meccanismo ancora sconosciuto permetteva loro di riattivarsi. Fu questo inaspettato successo che nel 1949 portò Max Delbruck, padre della genetica moderna, ad offrirgli un posto di lavoro al California Institute di Pasadena, La grande occasione, quella che spianò la strada alle nuove frontiere della ricerca biologica, fu lo studio del virus responsabile dell’Herpes zoster, meglio noto come “fuoco di Sant’Antonio”. Dopo aver viaggiato molto negli USA per apprendere tutto ciò che a quel tempo fosse noto sui virus, giunse alla conclusione che ciò che mancava era un metodo appropriato per saggiare questi microscopici agenti. Grazie al suo spiccato ingegno, intuì la possibilità di applicare ai virus animali il metodo delle placche, precedentemente adottato con i fagi, ed effettivamente i risultati a conferma della sua tesi furono eccellenti. Un’altra conquista, sopraggiunse poco tempo dopo, nel 1955, quando egli riuscì ad identificare un mutante del virus della poliomelite, malattia estremamente temuta, che fu utilizzato da Albert Sabin per preparare un vaccino. Ormai la sua posizione al Caltech era emergente e a conferma di ciò, venne nominato professore associato di microbiologia. L’interesse per i virus, si fece sempre più specifico, fin quando sfociò nei virus che rendono le cellule cancerose, ovvero capaci di moltiplicarsi incessantemente; studio intrapreso inizialmente dal ricercatore Harry Rubin. Ciò che bisognava comprendere, era la modalità d’azione dei virus, che una volta penetrati nella cellula sembravano svanire per cui il futuro premio Nobel colse l’occasione offerta dall’isolamento di un nuovo virus a DNA, quello del polioma, per verificare la validità di questa tesi. Nel 1962 bussò alla porta una nuova proposta: diventare membro del primo nucleo di ricercatori, che sarebbe stato realizzato a La Jolla, nei pressi di San Diego. L'elemento inedito fu l’individuazione di una sostanza, chiamata antigene T (tumorale), assente nelle cellule “sane” dell’organismo, ma presente sia in quelle infettate che in quelle uccise dal virus. L’esito fu chiaro, si trattava di DNA virale che si unisce chimicamente a quello della cellula, diventando parte integrante del suo materiale genetico. La scoperta fu clamorosa perché a questo punto fu semplice dedurre che i geni virali definiti “oncogeni” attivassero quelli cellulari necessari alla moltiplicazione cellulare facendola proseguire incessantemente. Il trasferimento del ricercatore in Inghilterra fu seguito dalla sua elezione come membro straniero della “Royal Society” di Londra, un grandissimo onore per uno scienziato, perlopiù straniero. il Progetto Genoma, con l’obiettivo di identificare tutti i geni delle cellule umane e il loro ruolo, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro si trattava degli anticorpi monoclonali. Le ricerche iniziali furono condotte sulla ghiandola mammaria dei ratti e rivelarono la correlazione tra insorgenza di un tumore ed alterazione dell’espressione genica. Nell’arco di pochi mesi, furono attuate numerose iniziative, la scintilla del nuovo “ordigno” della scienza era stata innescata. Muore nel 2012 a La Jolla all'età di 97 anni colpito da infarto due giorni prima del suo 98º compleanno. Grazie alle sue scoperte, in materia di interazioni tra virus tumorali e materiale genetico della cellula, è stato insignito del premio Nobel per la medicina nel 1975, assieme a David Baltimore e Howard Temin.