Lettura del profeta Isaia 63, 7-17
Ciò che abbiamo letto è parte di una bellissima preghiera di Israele, una delle più commoventi della Scrittura, (63,7-64,11) che nasce dalla esperienza dell'esilio a Babilonia. Siamo alla fine del secolo VI, e davanti agli occhi resistono ancora vivissimi i ricordi della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.), le urla delle donne terrorizzate che fuggono con i loro figli, le stragi per le strade e le fiamme che avvolgono i palazzi ed il tempio
L'inizio della preghiera è come una confidenza, un pensiero di speranza di Dio stesso, che si fida di questo popolo che ha aiutato in ogni modo. "Senz'altro - pensa il Signore - questo popolo con la sua intelligenza e la sua sensibilità saprà riconoscere la bontà e l'opera svolta per loro. Certo- disse il Signore- essi sono il mio popolo e i figli che non deluderanno" (v 8).
Il profeta garantisce che questi sono i pensieri di Dio e lo fa a nome di Dio, mentre ripensa ai significati della storia del popolo. Dio stesso si è fatto carico della salvezza, non ha mandato un angelo o un messaggero, ma è stato Lui il Salvatore: "Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione li ha riscattati, li ha sollevati e portati su di sé, tutti i giorni del passato" (63,9). Ma proprio questo Dio amorevole si sente tradito. Così la riflessione teologica, propria del Primo Testamento, ritraduce la sventura successiva del popolo d'Israele come conclusione della scellerata decisione di lacerare il patto di Alleanza da parte dello stesso popolo. Ma, in tal modo, il popolo di Dio si è ritrovato solo, in un mondo di violenza e di sopraffazione.
Così l'itinerario del pentimento deve ricominciare dalle origini, riandare al deserto e a Mosè che si fece umile mediatore e quindi ubbidiente testimone delle promesse di Dio (v 16).. C'è una sintesi interessantissima che raccoglie in 5 frasi l'opera discreta e profonda di Dio ( " Dov'è colui che? Cinque come i libri della Legge: riassunto della sapienza e della storia; vv 11-13).
La preghiera si apre in una accorata invocazione a Dio che, per la prima volta, viene chiamato Padre.
Gli ebrei sono restii a chiamare Dio Padre poiché è questo il titolo che i pagani utilizzano per i loro dei, che usano sposare le figlie degli uomini ed avere figli e figlie. Ma Gesù questo titolo lo utilizzerà almeno 184 volte nei vangeli. Dio è l'Unico, il Padre suo e di tutti noi.
Nella preghiera si fa riferimento ai Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe che sono padri del popolo, ma, in questa circostanza, non possono fare niente e li hanno dimenticati (v 16). L'esperienza e i ricordi, però, assicurano che "Tu non sai dimenticare e che la tua parola resta intatta". La supplica è coraggiosa ma tenerissima: "Tu stesso devi riscoprire il tuo zelo e la tua potenza; il fremito di tenerezza e di misericordia" (v 15). Solo tu puoi cambiare il nostro cuore, offrire il tuo Spirito, radunarci, farci tornare. Questa preghiera di grande respiro sul mondo deve diventare la preghiera aperta del popolo cristiano.
Lettera agli Ebrei. 3, 1-6
La lettera è indirizzata soprattutto ad una comunità di Giudei cristiani. E' piuttosto difficile, nella prima generazione della Chiesa, convincere i Giudei che diventano Cristiani di lasciare completamente molta parte della loro vecchia religione, da sempre rispettata, per accettare quella nuova. Alcuni erano propensi a ritornare al giudaismo dopo aver accettato la fede cristiana. Gli argomenti principali sono la superiorità di Cristo come sacerdote su Aronne, e la superiorità del sacrificio di se stesso sulla legge.
Tutto questo dimostra, infatti, non solo la superiorità di Cristo, ma impegna anche che il sacerdozio di Aronne e i sacrifici della legge non debbono essere più osservati. Dimostra anche che tutti i riti della legge che dipendono dal sacerdozio di Aronne e dai sacrifici a questo collegati sono passati con essi.
Gesù è chiamato "apostolo e sommo sacerdote". Normalmente l'essere apostoli è dei discepoli inviati da Gesù, ma qui Gesù è il grande apostolo, cioè «inviato» da Dio agli uomini (cf.Gv 3,17+.34;5,36;9,7;Rm 1,1+;8,3;Gal 4,4) e sommo sacerdote, che rappresenta gli uomini presso Dio (cf.2,17;4,14+;5,5.10;6,20;7,26;8,1;9,11;10,21).
Il testo di oggi è all'inizio della sezione che presenta Gesù: "Sommo sacerdote, degno di fede e misericordioso" (3,1-5,10). Il termine di paragone è Mosè che ha condotto il popolo verso la terra promessa. Sia Gesù che Mosè sono stati fedeli al Padre e tutti e due hanno dato prova di tale adesione nella "casa di Dio". Infatti Mosé e Gesù hanno operato nella "casa" (che è il popolo d'Israele). Ma Mosé ha avuto da Dio un incarico come servo mentre è membro del popolo.
Gesù, invece, Figlio e Messia (Cristo), non partecipa alla costruzione, ma Lui stesso è costruttore di una propria casa, "non costruita da mano d'uomo" (9,11).
Esistiamo allora come popolo nuovo, assolutamente unico poiché poggia sulla fede in Gesù. E siamo un popolo nuovo non per etichetta o per riferimento culturale, tradizione od abitudini. "E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo" (v 6).
Nelle discussioni, confronti, sviluppi culturali, facilmente, rivendichiamo come cristiani diritti e appartenenze per tradizioni, sacramenti ricevuti, abitudini, collocazioni geografiche. Le consuetudini diventano facilmente abito formale, costumi e pretese di appartenenza.
Il testo ci riporta a "sentirci" nella casa di Gesù. E sentirsi nella casa di Gesù non avviene perché abbiamo in tasca le chiavi di casa, ma perché coltiviamo e manteniamo "libertà e speranza". La libertà dei figli di Dio si collega con la volontà del Padre, il rispetto e la misericordia per ogni persona, l'amore e l'attenzione ai più dimenticati. "La speranza" ci riporta a cercare e a costruire un mondo sempre migliore, perché sappiamo che lo Spirito ci sostiene. Il desiderio del Padre è rendere il mondo sempre più bello, purificato e libero dal male.
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 5, 37-47
Tra i sette segni che Giovanni sviluppa, ritroviamo la guarigione e quindi la vita, restituite al paralitico alla piscina di Bethesda (5,1-18). La malattia che soffre da 38 anni lo qualifica come una persona senza speranza (è interessante il numero 38 in rapporto al Deuteronomio 2,14 dove si ricorda che gli ebrei, usciti dall'Egitto e che hanno soggiornato nel deserto per 38 anni, non potranno entrare nella terra promessa, ma moriranno prima).
Sorge una durissima polemica, all'inizio, tra i giudei e l'uomo guarito, che secondo l'invito di Gesù, torna a casa, portandosi il suo giaciglio. Ma è giorno di riposo e quindi porta un peso: viene violato il comando di Dio, il primo comando della Legge che vale quanto la Legge stessa.
Poi la discussione, accesissima e pesante, si sviluppa con Gesù (5,19-47). Oggi leggiamo solo un tratto, in un quadro di drammatiche accuse e di coraggiose testimonianze, che oltrepassano di molto il senso della nostra comprensione. A noi sembra banale l'accusa eppure coinvolge tutta la religiosità ebraica del suo tempo..
Tutto il testo adopera un linguaggio adatto ad un tribunale. Qui si tratta veramente di un giudizio: verificare davanti a Dio il valore della legge e il valore di Gesù, per esaminare se è colpevole o innocente. Dal valore delle prove vengono la soluzione e quindi la legittimità dell'operato di Gesù.
Per Gesù i testimoni sono: le sue opere, il Padre e le Scritture (vv 36-47); per i giudei i testimoni sono Mosé e i suoi scritti. Gesù potrebbe anche portare la testimonianza di Giovanni Battista, Ma è una testimonianza umana, data all'inizio della sua predicazione e che non si può elevare al livello della parola di Mosè, tanto più che Giovanni ha sempre negato di essere Elia, o il profeta o il Messia (vv.33-36).
Sono le opere che lo garantiscono: le guarigioni tra i malati, gli storpi, i moribondi: le vere opere di Dio, opere della misericordia e della liberazione. I giudei non sanno fare un collegamento tra la sua opera che soccorre i poveri e guarisce i malati e la volontà di Dio che desidera la liberazione di ogni persona. In tal modo essi- dice Gesù - non credono nel Padre. Il Padre invece riconosce le opere di Gesù perché sono secondo la Sua volontà e quindi riconosce Gesù stesso.
"E se la legge del sabato obbliga a non intervenire, abbandona il malato a non rispettare il sabato perché malato. Ma se io opero una guarigione, rendo un figlio di Dio capace di libertà e quindi capace di rispettare anche il sabato, oltre che tutta la legge". Questa è la riflessione suggerita.
Le Scritture sono fonte di vita. I Giudei le scrutano per "avere in essa la vita eterna" (v 39). Ma la vita non la possono trovare poiché "Voi non volete venire a me per avere la vita" (v 40).
Gesù rivendica un rapporto unico con il Padre e non cerca sostegno e onore dagli uomini (v 41).
"Venire nel nome del Padre" significa essere il vero profeta. Proprio Mosé, nel Deuteronomio, ricorda che ci sarà il vero profeta: "Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto" (vv 18,15. 18).
Invece "venire nel proprio nome" è del falso profeta (v 18,20) e la sua parola è inefficace poiché non sa compiere le opere di Dio (v 18,22).
Nel suo Vangelo Luca, per due volte, ricorda che Gesù risorto ha invitato a rileggere "Mosé e i profeti": così i discepoli potevano, profondamente, entrare nel suo mistero (vv 24,25-27; 27,44-45).
La fede in Gesù, che è il nostro prezioso tesoro, non è un pacifico possesso ma un itinerario che passa tra la fiducia in Gesù, la costruzione di un progetto e la ricerca. Sorge una domanda fondamentale che ci obbliga ad una risposta: "Questo mondo, attraverso la nostra fede in Gesù, scopre il volto del Dio liberatore? Con la mia fede porto la speranza di crescita, di cambiamento, di pace a cui noi stessi collaboriamo?" da Qumran2 |