In un clima di inverno demografico che imperversa sui "Paesi a sviluppo avanzato", l’Italia si caratterizza per essere da tempo ai vertici nel panorama mondiale della bassa fecondità, con meccanismi di ritardo e di rinvio che hanno portato le donne a esprimere una "propensione alla maternità" ridotta del 50% rispetto ai primi anni Settanta e con un sensibile innalzamento dell’età alla nascita del primogenito, accompagnato da una rarefazione dei figli di ordine superiore al secondo. Ma la crisi della fecondità italiana non è slegata dalla dinamica generale del ciclo familiare, in quanto essa si esprime ancora in 4/5 dei casi all’interno del matrimonio (là dove in molti Paesi europei si è prossimi a uno su due). È tutto il ciclo di vita individuale a essersi progressivamente spostato in avanti. Aver dilatato la permanenza dei giovani in famiglia ha fatto sì che si siano modificati anche i tempi che ne cadenzano gli eventi successivi: si studia più a lungo, si trova il primo impiego più tardi, si esce a fatica dal nucleo di origine, si ritarda il matrimonio e quindi il primo – e spesso unico – figlio arriva in molti casi ben oltre i 30 anni.
Eppure le donne italiane continuano ad avere un elevato desiderio di diventare madri. Ma se è vero che il rinvio delle nascite dà spesso luogo solo a un ridimensionamento dell’ampiezza familiare desiderata, una più intensa fecondità oltre i 35 anni – oggi due o tre volte superiore al passato – non è sufficiente per recuperare l’apporto carente nelle età più giovani. D’altra parte non si può neppure contare sul ruolo di "riempimento delle culle" assegnato alla popolazione immigrata, poiché l’adattamento degli stranieri ai modelli riproduttivi autoctoni procede velocemente.
Tutto questo risulta poi fortemente aggravato da oltre trent’anni di interruzione volontaria della gravidanza, un fenomeno che ha privato il Paese del contributo di un "popolo di non nati" la cui consistenza numerica è già oggi arrivata a superare il totale degli abitanti di una grande regione come il Veneto (circa 5 milioni di unità).
Con tutte queste premesse, non è certo difficile comprendere un’altra grande rivoluzione demografica in atto nel nostro Paese da qualche decennio: l’"invecchiamento demografico". Un fenomeno destinato a trascinare con sé cambiamenti importanti in molti campi della vita delle persone e dell’organizzazione sociale e che deve indurre una parallela e dinamica trasformazione adattativa nella società. Basterà ricordare che mentre la popolazione degli ultra65enni (i nonni) supera già adesso di circa un milione quella con meno di 20 anni (i nipoti), tra un ventennio potrebbe superarla di ben 6 milioni e nel contempo sembra prospettarsi, poco prima del 2030, anche il sorpasso numerico della popolazione ultraottantenne (i bisnonni) sulla popolazione con meno di dieci anni (i pronipoti).
La conoscenza delle modalità con cui si è manifestato (e si manifesterà) il cambiamento demografico nel nostro Paese induce a prendere in esame gli interventi per governare le molteplici trasformazioni in atto. Tuttavia non si può non rilevare come, a tutt’oggi, la risposta politica ai problemi derivanti dal cambiamento demografico sia stata assente o molto debole: la questione della famiglia e dei figli non è quasi mai stata nell’agenda politica, in quanto essa implica un orizzonte che va oltre i normali tempi delle legislature. Viceversa, va preso pienamente atto, a tutti i livelli (e in ambito politico forse più che altrove) che la chiave di volta dei processi demografici sta tuttora largamente nella famiglia e che è nella famiglia che si decide il futuro demografico non solo dei singoli individui, ma dell’intero Paese.