Dicono che servirà a snellire il traffico, ma la rotonda c’era già, e francamente non capisco il motivo di allargarla. Mai vista una coda, lì.
Poi, dato che c’erano, hanno facilitato , con un’apposita, a loro dire piccola, deviazione il ricongiungersi all’ingresso del centro logistico Auchan.
Dato che c’erano.
La ruspa scardina in modo rozzo e grezzo il campo; il fosso, piccolo e coperto d’erba sulle rive e sul fondo non è affatto una sfida.
Dalla terra violentata affiorano tracce di vecchie radici, non del tutto tornate alla madre.
Il noce. Il disgusto mi lacera la pelle.
Senza rispetto la violenza si consuma: l’esistenza del fosso viene cancellata in un attimo, uccidendo mille vite e mille storie.
S’incamminava un po’ ingobbito sulla piccola strada, a buon passo nonostante l’età, col vestito bello della festa grigio scuro che sapeva di legno vecchio e cera e la camicia bianca. Le scarpe nere erano lucide e In testa portava un cappello di feltro a tesa larga.
I piccoli occhi nascondevano l’età, ma le labbra, data la mancanza di tutti i denti, piegate all’interno della bocca, difficilmente riuscivano a chiuderla, e la testa era sempre scossa da un lieve tremore.
Era domenica, e lui, alle otto e mezza del mattino, s’avviava al paese, per la messa dei ragazzi e per la comunione, indifferente ai circa quattro kilometri da percorrere fra andata e ritorno, ed all’umore del tempo.
Non era tollerato in famiglia, e nemmeno oggetto di particolari attenzioni: era ‘famiglia’; erano ‘famiglia’ i piccoli, i ragazzi, il figlio, la moglie.
C’erano tante piccole cose da fare, non per passare il tempo, ma per vivere il tempo.
Spazzare il porticato, affilare con la pietra falci e falcetti, cambiare il manico ad un badile, fare colazione con latte e pane, pranzo, merenda e cena.
Sapeva sempre essere puntuale, ma non aveva l’orologio.
Non c’erano rimpianti, non c’erano desideri, non c’erano bisogni.
Non c’era paura.
Era parte del mondo che sapeva sopra la sua esistenza, che la accoglieva nella serenità di colori delicati, suoni profumati, cullati nella musicalità di aromi che accarezzavano lo scorrere del tempo.
Quel mattino giugno s’era svegliato con la voglia di stupire: il vento invisibile disegnava il suo sentiero ondulato nel campo di grano giunto quasi al termine del suo cammino; la distesa si pavoneggiava del blù intenso dei fiordalisi e del rosso dei papaveri, preziose perle incastonate nel verde quasi sconfitto dal topazio.
Regalava alla brezza il suo profumo, che sarebbe stato offerto a chi aveva il dono di apprezzarlo.
Il piccolo fosso, secondario, che terminava dopo una trentina di metri dalla sua diramazione dal vaso principale, era ricoperto d’erba e fiori sulle rive, ed anche sul fondo.
Prese la zappa e si mise il cappello brutto; a metà del percorso del fossato un noce possente e frondoso lasciava intravedere piccoli frutti che l’autunno avrebbe maturato, lasciandoli cadere accompagnati dal rumore del loro battere sul rami che trovavano lungo il percorso. Toc, tac, tititac.
Il fosso andava ripulito, per facilitare lo scorrere dell’acqua di cristallo.
A mezzogiorno, la sedia al tavolo era vuota.
Guardava sdraiato una macchia di false stelle alpine, così chiamate per la loro vaga somiglianza a quelle originali, ma, le prime, di colore bianco candido e dal profumo delicato e piacevole; il sole allo zenith rendeva scintillante il bianco del piccoli petali.
Le labbra e la mancanza di denti lasciavano aperta la bocca; il cappello era messo un po’ di traverso.
Non c’era più il solito tremolio della testa.
Non era domenica, ma quella sera avrebbe indossato il vestito bello che sapeva di legno vecchio e di cera.