Lo
aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo
per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso
verso la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo
chiamavo a lungo, gridando. All'alba corsi nuovamente per le strade
deserte, fra le mute facciate delle case che, sotto il cielo livido,
parevano di carta sporca. Non appena si fece giorno, corsi alla prigione
municipale dei cani.
Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano
cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino.
II guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una
macchina, o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di
giovinastri.
Mi consigliò di fare il giro dei canai, chi sa che Febo non si trovasse
nella bottega di qualche canaio? Tutta la mattina corsi di canaio in
canaio, finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei
Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria
dell'Università , alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli
animali destinati alle esperienze cliniche.
Corsi all'Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica
Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi
un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro. Nel
pomeriggio tornai all'Università, entrai nella Clinica Veterinaria. Il
cuore mi batteva, non potevo quasi camminare, tanto ero debole e
oppresso dall'ansia. Chiesi del medico di guardia, gli dissi il mio
nome. II medico, un giovane biondo, miope, dal sorriso stanco, mi
accolse cortesemente e mi fissò a lungo prima di rispondermi che avrebbe
fatto tutto il possibile per aiutarmi. Aprì una porta, entrammo in una
grande stanza nitida, lucida, dal pavimento di linoleum azzurro. Lungo
le pareti erano allineate l'una a fianco dell'altra, come i letti di una
clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello; in ognuna di
quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal
cranio spaccato, o dal petto spalancato. Sottili fili d’acciaio, avvolti
intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti
musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle
orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle
venature dei bronchi simili a rami d'albero, gonfiarsi proprio come fa
la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato
contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e
rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli
intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all’uscir dal letargo.
Non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei can i crocifissi. Al
nostro entrare tutti i cani avevano rivolto gli occhi verso di noi,
fissandoci con uno sguardo implorante, e al tempo stesso pieno di un
atroce sospetto: seguivano con gli occhi ogni nostro gesto, ci spiavano
le labbra tremando. Immobile in mezzo alla stanza, mi sentivo un sangue
gelido salir su per le membra: a poco a poco diventavo di pietra. Non
potevo schiuder le labbra, non potevo muovere un passo. Il medico mi
appoggiò la mano sul braccio, mi disse: "Coraggio".
Quella parola mi sciolse il gelo delle ossa, lentamente mi mossi, mi
curvai sulla prima culla. Di mano in mano che progredivo di culla in
culla, il sangue mi tornava al viso, il cuore mi si apriva alla
speranza.
Ad un tratto, vidi Febo. Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una
sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di
lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un
gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un
tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il
petto. "Febo" dissi a voce bassa. Febo mi guardava con una meravigliosa
dolcezza negli occhi. Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui
crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una
dolcezza meravigliosa. "Febo" dissi a voce bassa, curvandomi su di lui,
accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito.
Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: "Non potrei interrompere
l'esperienza", disse, è proibito. Ma per voi... Gli farà una puntura.
Non soffrirà ". Io presi la mano del medico fra le mie mani, e dissi,
mentre le lacrime mi rigavano il viso: "Giuratemi che non soffrirà ".
"Sì addormenterà per sempre", disse il medico, "vorrei che la mia morte
fosse dolce come la sua". Io dissi: "Chiuderà gli occhi. Non voglio
vederlo soffrire.
Ma fate presto, fate presto!". "Un attimo solo" disse il medico, e si
allontanò senza rumore, scivolando sul molle tappeto di linoleum. Andò
in fondo alla stanza, aprì un armadio. Io rimasi in piedi davanti a
Febo, tremavo orribilmente, le lacrime mi solcavano il viso. Febo mi
guardava fisso, e non il più lieve gemito usciva dalla sua bocca, mi
guardava fisso con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Anche gli
altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso,
tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve
gemito usciva delle loro bocche. Ad un tratto un grido di spavento mi
ruppe il petto: "Perché questo silenzio?", gridai, "che cos'è questo
silenzio?".
Era un silenzio orribile.
Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve. Il medico mi si
avvicinò con una siringa in mano: "Prima di operarli", disse, "gli
tagliamo le corde vocali".
(Curzio Malaparte, "La Pelle) di Alessandra Chiarenza
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