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A.R.T.E.: Gli angeli nella pittura del settecento
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De: primula46  (Mensaje original) Enviado: 25/01/2011 15:05
Gli angeli nella pittura del Settecento




Francesco Solimena, Il sogno di Agar, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli. Un soggetto caro all'artista napoletano, che qui lo interpreta ancora in chiave barocca e magniloquente.

Il secolo si apre con un bel quadro di Francesco Solimena che rappresenta l'episodio di Abramo e gli angeli, dipinto nel 1701 e oggi conservato presso la Pinacoteca di Brera a Milano, sebbene sia in deposito presso la Camera dei Deputati a Roma. La storia è nota. Il patriarca accoglie presso la sua casa tre uomini che poi si riveleranno essere i tre angeli giustizieri che andranno a distruggere Sodoma e Gomorra. Nonostante la scena si svolga all'esterno, i colori caldi, di reminiscenza caravaggesca, evocano l'intimità di un interno. I protagonisti della storia ci sono tutti. Abramo stesso sta in piedi davanti agli ospiti in segno di deferenza. Il suo gesto ha il senso dell'accomodatevi!'. Sulla tavola imbandita c'è la focaccia, ma nulla lascia intuire che si tratta della prefigurazione dell'eucarestia. Infatti, la dimensione simbolica e trascendente è discreta e non c'è nulla, salvo le ali degli angeli (perché questi si comportano come normali commensali), che la faccia intuire. Il concetto è semplice: il sacro si presenta con naturalezza e senza retorica. Non sempre, però, le cose stanno in questi termini.



Giambattista Tiepolo, affresco realizzato nel Palazzo arcivescovile di Udine, l'Apparizione dei tre angeli ad Abramo, (soggetto ripreso anche dal fratello
Giandomenico)


Nasce un nuovo spirito

La scena dipinta da Giambattista Tiepolo per il Palazzo arcivescovile di Udine che rappresenta l'Apparizione dell'angelo a Sara (1727-1728) ha la sua dimensione trascendente proprio nella figura del messo divino che arriva come un cavaliere dal vestito estroso, e bussa alla porta di una donna anziana che potrebbe essere una vecchietta veneziana di quelle che vivevano nella zona del Ponte delle Ostreghe, o fra i vicoli variopinti di Torcello, anche se ha l'aspetto di nobildonna, con il colletto di pizzo e l'abito di raso. La figura dell'angelo, così originale e lontana da ogni tradizione iconografica per quel che riguarda le vesti, vuole sottolineare l'appartenenza a un'altra dimensione. Il messaggero celeste è appena arrivato, le ali sono ancora frementi di volo e gli abiti si sono appena ricomposti dal vento. Il gesto è imperioso, come dire: «Tu ... !» e la risposta istintiva quanto incredula della donna è quella di toccarsi il petto come a rispondere: «Chi io? Possibile?». Allora l'angelo sembra ricordare che «lo spirito di Dio soffia dove vuole ... » (Giovanni, 111, Figo perché Sara a quell'età potrà dare alla luce il figlio prediletto: Isacco.





ancora Giambattista Tiepolo, affresco realizzato nel Palazzo arcivescovile di Udine, l'Apparizione dell'angelo a Sara.
Tiepolo dipinge un angelo lontano dalla tradizione precedente, quasi un cavaliere che appare a un'umanità semplice e bisognosa portando il messaggio di salvezza.




Con il medesimo spirito, il fratello più giovane di Giambattista, Giandomenico, dipingendo la sua Apparizione dei tre angeli ad Abramo (1773-1774), conservato presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia, cerca di sottolineare la straordinarietà dell'evento. Per questo i tre angeli, praticamente nudi, con delle ali immense, si mostrano su una nuvola che trascolora nella luce dell'empireo, abitato da piccoli cherubini con la testa alata. Il passo cui si è ispirato il Tiepolo per la realizzazione di questa tela, commissionata per la scuola di Santa Maria della Carità a Venezia riguarda la prima parte dell'episodio biblico, il momento in cui il patriarca si accorge di avere dinanzi a sé tre uomini ritti in piedi (il che corrisponde a un'apparizione) e si rivolge loro con grande deferenza, invitandoli a rimanere. Con intuito e coerenza, perciò, Tiepolo dipinge Abramo in ginocchio, con le braccia allargate in atto di preghiera e di sottomissione.



Giambattista Tiepolo, L'Immacolata Concezione, Museo Civico, Palazzo Chiericati, Vicenza.

Cadono le vesti

La condizione di seminudità dei messi divini va posta in relazione anche al cambiamento di gusto che, a questa data, si avviava a grandi passi verso il Neoclassicismo. Se è vero che questa rappresentazione dell'angelo nudo va ricondotta ai precetti che il cardinal Borromeo raccomandava nel suo Oe pictura sacra (edito a Siena nel 1603), perché gli angeli nudi dimostravano d'essere privi della tabe del peccato, dall'altra questa nudità si andava indirizzando verso il nascente gusto neoclassico e il recupero della classicità. Un esempio precedente e, per questo, interessante era nella Cacciata dal Paradiso di Jacopo Amigoni, dipinta nella prima metà del XVIII secolo, presso l'abbazia benedettina di Ottobeuren.



Jacopo Amigoni, Sant'Andrea e Santa Caterina, particolare, chiesa di San Stae,Venezia.

Non è difficile scorgere nella fresca pittura dell'artista napoletano che si formò in ambito veneziano, l'eco dell'insegnamento di Tiepolo, soprattutto nelle atmosfere vaporose delle nubi e nel leggero scorcio dal basso. l'aspetto che qui preme sottolineare, però, è quello dell'originale raffigurazione dell'angelo la cui iconografia, ormai, tende a coincidere con i modelli derivati dall'antichità pagana. In questo senso Amigoni pare anticipare scelte che saranno tipiche del Neoclassicismo maturo, quando, dal punto di vista formale, le differenze fra angeli e geni alati, saranno inesistenti. L'angelo che scaccia i nostri progenitori è nudo e, qui, solo la presenza di una nuvola pudibonda impedisce un'inusitata quanto imbarazzante rappresentazione. Nel solco della tradizione, invece, rientrano i fronzuti serti di foglie che coprono le pudenda dei nostri progenitori.



François Boucher, Il sorgere del sole, Wallace Collection, Londra.
Il Settecento opera una laicizzazione della figura angelica.


Verso una laicizzazione dell'angelo

Non è facile trovare opere a soggetto sacro nell'ultimo scorcio del Settecento e, in particolare, angeli. Tutto il secolo, infatti, venne sottoposto a un processo di laicizzazione che muovèva dalla convinzione che la dimensione razionale fosse quella più giusta e più vera. AI di là delle semplificazioni, resta il fatto che la cultura dominante, rappresentata, per esempio, da Voltaire, faceva i primi passi per provare a escludere Dio dalla Storia dell'uomo. Del resto già il tardo Settecento, con il Rococò, mostra, sebbene in tutt'altra forma, la laicizzazione della figura angelica nel senso che i corpi paffuti dei cherubini si confondono del tutto con quelli degli eroti, come dimostrano la ricordata Adorazione dei pastori di Boucher oppure, dello stesso autore, il Riposo nella fuga in Egitto conservato all'Ermitage di San Pietroburgo. L'angelo ha assunto un'ambiguità d'aspetto fra maschile e femminile che lo rende un essere bellissimo posto sul crinale sottile situato fra la realtà della fede e la mitologia della tradizione.



Mengs, Ermitage, San Pietroburgo
Luca è l'evangelista che narra l'episodio dell' Annunciazione, il suo racconto è privo di énfasi e la grandiosità dell'evento emerge solo dalla semplicità delle parole dell'angelo e dalla risolutezza di quelle di Maria. Un'atmosfera diversa da quella evocata da Mengs.
IL REGISTRO SUPERIORE della tela è occupato da una scena assolutamente enfatica, che in termini di spazio risulta essere più estesa della scena principale. Qui, in un alone di luce, Mengs ha dipinto Dio padre fra gli angeli che lascia procedere verso Maria la colomba dello Spirito Santo.
QUESTA DI MENGS è una delle rare Annunciazioni che mostrano l'angelo a destra, il più delle volte, invece, per seguire la logica narrativa del verso di lettura, lo troviamo a sinistra. A parte questa eccentricità, però, l'angelo segue un'iconografia assolutamente consueta, con la tunica dalle larghe maniche e il mazzo di gigli in mano, simbolo di purezza.




Lo dimostra, per esempio, la vitalissima Assunzione della Vergine di Giambattista Tiepolo (Louvre, Parigi), nella quale gli angeli dalle vesti fruscianti e dai torsi nudi paiono dei geni alati usciti dalla decorazione dei vasi della Magna Grecia. Lo confermano alcune opere di Canova come i geni del monumento Stuart in Vaticano e quello di Maria Cristina d'Austria a Vienna. Il cenotafio degli Stuart mostra due eleganti figure nude con le ali che rappresentano i geni della morte secondo l'interpretazione neoclassica. Non sono angeli, come dimostra la presenza della face rovesciata (simbolo della fiamma della vita che si è spenta), ma non differiscono neppure dall'iconografia corrente dei messi divini, così come si andava affermando nel corso del XVIII secolo. Ammirati da Stendhal, ma coperti da Leone XII, possono essere considerati il simbolo della contaminazione fra classicità e religione cristiana nel Settecento. Identica figura troviamo nel monumento a Maria Cristina d'Austria, dove il genio alato con lo scudo (simbolo della fama) siede sulle scale accanto al leone accucciato (simbolo del tempo). Il ritratto dell'arciduchessa, posto in un clipeo chiuso dall'ouroboros (il serpente che si morde la coda), invece, è sostenuto da una figura femminile senza ali, che può essere interpretata come l'eternità, mentre un angioletto nudo e paffutello come un erote, le offre la palma di Cristo.



Monumento funebre a Maria Cristina d'Austria 1798-1805 AUGUSTINERKIRCHE, VIENNA
L'idea della piramide come monumento funebre è ripresa dalla tomba di Agostino Chigi realizzata da Raffaello in Santa Maria del Popolo a Roma, che già aveva ispirato Canova per il monumento funebre a Tiziano, rimasto però a livello di bozzetto.
Il GRUPPO DEl CIECO infermo e incerto, che si appoggia alla giovane fanciulla per varcare la soglia della vita, fu lodato dalla critica del tempo. Si capiva perfettamente, infatti, che Canova aveva optato per una figura in grado di seguire l'andamento obliquo della piramide per non spezzarne il dinamismo.
L'ANGElO è soltanto il piccolo cherubino, dall'aspetto di erote secondo consolidate scelte rinascimentali, che offre all'effigie della defunta la palma. L'altra figura, priva di ali, è l'Eternità che inquadra il ritratto di Maria Cristina nell' ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo di colei che lo sorregge.
Il GRUPPO DEL GENIO ALATO con il leone, fu ripreso da Canova dal monumento a Clemente XIII che lo scultore veneto aveva terminato sei anni prima dell'inizio di questo per Maria Cristina d'Austria. La sostituzione della face rovesciata con lo scudo, che in questo secondo caso il genio porta accanto, vuole ribadire il concetto di fama perenne.


Continua

Fonte : I grandi temi della pittura. Ed. De Agostini


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