Cosa avrebbe voluto rivedere Marguerite Yourcenar nel momento ultimo della propria fine?
I giacinti del Mont Noir, le arance appese ai rami da suo padre, un cimitero in rovina invaso
dalle rose, il mare con il suo rumore che dura dal principio del mondo, il carillon che suona
un'arietta di Haydn, o quel giorno a Corbridge, distesa in mezzo ad un campo di scavi quando
si è lasciata impregnare di pioggia insieme alle ossa dei morti romani, o un arrivo mattutino
a Segesta, a cavallo, attraverso sentieri allora deserti e sassosi che profumavano di timo,
o i volti amati, confusi tra i volti immaginari, o tra i volti della storia.
O niente di tutto questo, forse solo il vuoto, fiammeggiante come il cielo d'estate,
che divora le cose, e a prezzo del quale il resto non è più che una successione d'ombre.
La morte come la vita, le care memorie e l'innocenza di una fanciulla, le vestigia e i profumi
del presente, la linea di confine sempre lambita e molte volte attraversata, mille simboli
e rimandi, ma una sola certezza: l'indicazione per giungere alla meta ogni lettore
la deve cercare dentro sè stesso.